La fragilità

Riflessioni del Dott. Don Roberto Valeri, Assistente spirituale UCFI Milano

L’esperienza terribile e inaspettata del virus che ha flagellato l’Italia e non solo ci ha resi più consapevoli del concetto di fragilità e messo in luce la questione della dipendenza relazionale dell’uno con l’altro, della bellezza dell’amicizia, della necessità di abbracciarci di sorridere, piangere, e cantare insieme.

A dire il vero sperimentiamo anzitutto come credenti, la nostalgia della Chiesa come luogo in cui la relazione con Dio e con gli altri è più reale di quanto pensassimo. Uomini e donne mendicanti di Salvezza e Cristo mendicante di ciascuno di noi per offrirci ciò che desideriamo di più: l’eternità in un incontro ineffabile e la qualità etica dei rapporti segnati dalla carità.

In un tempo dove sembrava importante dare la morte, dove sembrava che tutti avessimo il problema di come morire ed evitare qualsivoglia sostegno alla vita, talora chiamato impropriamente accanimento, ora in questo tempo virale, improvvisamente l’attenzione sembra essersi rovesciata: si cerca la vita e tutti sostegni ad essa.

Si ripropone ora la questione del rapporto costo-beneficio e la grande realtà della proporzionalità della cura. Se da una parte della bilancia si pone la questione economica o meramente tecnica, dall’altra appare la priorità della salvezza della persona, a fronte della quale, qualunque rischio economico dovrebbe essere giustificato e qualunque difficoltà tecnica risolta. Alla Culumbia University ,alla metà degli anni ottanta, si calcolò che per salvare un bambino di 450 grammi veniva spesa la somma di centomila dollari, ma questa sproporzione era giustificata. Cosa offre questa giustificazione? In termini di linguaggio terapeutico, si preferisce parlare di rapporto fra rischio e beneficio.  Ma anche di altri valori in gioco: ad esempio il rapporto fra costi ed efficacia dove si deve valutare la possibilità reale oggettiva, di risolvere la patologia in corso con risorse comunque limitate e con altri che necessitano di cure e premono su dette risorse (il dramma deontologico delle terapie intensive)[1]. L’aspetto valoriale offerto dal credo da un contributo alla decisione da prendere?

Non c’è alcun dubbio che occorre avere ben chiaro il valore trascendente della persona per noi cristiani creata in Cristo che può esigere il primato dell’uomo sull’economia. Ma questo non è più scontato da quando si sono inseriti nella comprensione della realtà e dell’individuo, il principio di qualità della vita a scapito della sacralità, quando imperversa il soggettivismo,  tale per cui ognuno è libero di agire arbitrariarmente senza confrontarsi, usando i propri valori soggettivamente ma con un grave rischio come annota lucidamente J.E. Newman: “è consentito accogliere o rifiutare questa o quella opinione a nostro piacere; il credere riguarda riguarda questa o quella opinione a nostro piacere; il credere riguarda solo l’intelletto e non anche il cuore; ci possiamo fidare di noi stessi in materia di fede senza bisogno di alcun’altra guida. Questo è il principio delle filosofie e delle eresie, questo è il principio della debolezza[2]. Tante teorie, tante visioni dell’uomo che non sempre pensano la persona in chiave cristiana e talvolta la pensano solo in chiave brutalmente funzionale come vorrebbe il funzionalismo.  Ma la grande perdita del concetto di unicità dell’uomo come creatura di Dio,  è proprio la perdita di Dio. L’uomo non è più creatura di Dio  ma insieme di cellule, geneticamente determinato con un inizio e una fine, privo di libertà determinato da una cultura o luogo geografico, come un robot:  quando non funziona occorre disporne la fine. Questo basta al nostro cuore?

Questo periodo ha rimesso la questione uomo, e uomo malato, fragile, al centro della riflessione politica ed economica identificando un nuovo rapporto con l’allocuzione delle risorse pubbliche e con la capacità di uomini e sistemi che rispondono alle esigenze del momento.  Pensiamo a quanto si è straparlato del sistema sanitario lombardo.

Ha messo in evidenza, questo periodo,  il grande desiderio di vita e non di morte, il desiderio della relazione e della cura del malato, cura non solo in chiave terapeutica ma anche relazionale. Pensiamo ad esempio a quanti hanno sofferto per non aver potuto stare vicino ai propri cari in difficoltà. Il rischio di una cultura che dimentica l’uomo è evidente. E di una cultura che marginalizza Dio lo è altrettanto.

Come cristiani, oggi come non mai,  abbiamo la responsabilità di far notare il rapporto fra Dio Padre e ogni uomo che in Cristo è figlio e dunque con una dignità che merita sempre il massimo dell’impegno ma anche come  per il cristiano ogni tribolazione apre ad un bene maggiore: l’eternità. Il cristiano è la sentinella di questo rapporto e può mostrarne tutta la bellezza e il significato forse oggi più tangibile: più siamo abbracciati a Cristo più acquistiamo valore di fronte a qualsiasi urgenza, più siamo abbracciati a Cristo più  guardiamo al nostro compimento nella Vita eterna.

Dr. Don Roberto Valeri

[1] Per riferimenti esaustivi: E.Sgreccia, Manuale di Bioetica, Aspetti medico sociali, vol. II, 560-606; Milano 20023 ;    anche: Sacra congregazione della dottrina della fede del 5 maggio 1980, Jura et bona,  n.4, AAS, 72 (1980), 542-552

[2] L.Orbetello (ed), J.E.Newman. Lo sviluppo della dottrina Cristiana, Milano 2002, 345

Riunione 23 marzo ANNULLATA

Causa recenti Decreti per il contenimento della diffusione del COVID-19, si è deciso di rimandare anche la riunione del 23 marzo a Milano in Viale Piceno 18 ore 21,00″. Non appena sarà di nuovo possibile riprendere le riunioni Vi faremo sapere le prossime date degli incontri.
Ricordiamoci di riservare uno spazio tutti i giorni per la preghiera, tanto importante in questi giorni di prova.

UCFI MILANO serata annullata

Causa misure straordinarie per la prevenzione della diffusione del Corona Virus si è deciso di non fare la riunione ucfi di stasera a casa Riccaboni a Milano.

PROSSIMI INCONTRI UCFI MILANO

Lunedì 24 febbraio ore 21,00 presso casa privata di Maria Teresa in Via Pergine 2 angolo Via Isernia a Milano MMQT8 poichè la sede di viale Piceno è in ristrutturazione, si prega di dare l’adesione telefonando o mandando un messaggio a 3356008311
Lunedì 23 marzo ore 21,00 presso la sede della Ass. Lombarda Viale Piceno 12 sala del secondo piano
Argomenti trattati: approfondimenti sul tema del Fine Vita utilizzando conferenze di bioetica pubblicate da Radio Maria.

COMMENTO ALLA PRIMA SERATA DEL 20.01.2020

Dopo la relazione del dott don Roberto Valeri su “Il morire filiale: identità e speranza” già pubblicato sul sito, c’è stata una discussione nella quale è emerso il bisogno di procedere, dopo la valutazione degli aspetti etici ed antropologici, anche con l’approfondimento dal punto di vista medico e legislativo. Al fine di incominciare con qualche lettura personale, si è suggerito di leggere i commenti fatti dal Dott Alfredo Mantovano relativi alle ultime leggi che parlano del suicidio assistito nel sito del “Centro Studi Livatino” (www.centrostudilivatino.it) e anche di riascoltare la conferenza del Dott Renzo Puccetti del 10.01.2020 dal titolo “Fine Vita – Così è se vi pare” sul sito www.radiomaria.it – trasmissioni – sezione scienza e bioetica. Si può anche prendere visione degli articoli pubblicati sul sito del Dott Gian Maria Comolli. Dal dibattito è venuto fuori la connessione tra vari argomenti: DAT (Disposizioni Anticipate di Trattamento) – Leggi e disposizioni in materia di Trapianto d’Organi – Legge sulle Cure Palliative e piano di attuazione. Si è deciso di procedere chiamando degli esperti ad approfondire le varie tematiche.

Le conclusioni etiche sul fine vita a partire dall’identità filiale

INCONTRO UCFI SEZIONE DI MILANO.
LUNEDI’ 03 FEBBRAIO 2020 ORE 21,00 VIALE PICENO 18, MILANO, SALA SECONDO PIANO DELL’ASSOCIAZIONE LOMBARDA DI FARMACISTI
Titolo: “Le conclusioni etiche sul fine vita a partire dall’identità filiale” Dott Don Roberto Valeri
Seguirà dibattito e programmazione del prossimo incontro sul Fine Vita.

Il morire filiale, identità e speranza. Affidamento e pienezza di libertà del Cristiano “ad limina” della vita.

  1. Esistere ad «immagine e somiglianza» del Figlio crocifisso:

 

Gli interventi del professor Real Tremblay[1] a favore della riflessione morale sono molteplici e mostrano  una feconda sintesi sull’antropologia filiale cristocentrica[2].

Lo studio di Tremblay[3] riflette sull’attuale e sempre discusso rapporto tra Cristo e la morale sostenuto in modo esplicito dal Concilio Vaticano II (Gaudium et Spes 22; Optatam totius 16), mettendo anche in evidenza la pertinenza dell’intervento magisteriale[4] e  l’oggetto specifico di tale intervento[5].

La sua proposta ha il pregio, oltre al valore antropologico, di mostrare la necessità di tale servizio del magistero, soprattutto in un periodo di forte pluralismo talvolta contraddittorio. Superando in questo modo la resa di fronte alla frammentarietà veritativa e mettendo in evidenza l’orizzonte cristologico nel quale l’humanum si situa.

Le prospettive sottolineate da Tremblay nella rilettura della Veritatis Splendor[6], evidenziano il valore dell’antropologia illuminata dalla cristologia, facendola così diventare realmente una proposta valida per tutti ma con un compito specifico, profetico,  per il cristiano che ne è il custode.

Mettendo in evidenza come  la creazione è il primo atto salvifico di Dio a riguardo dell’uomo e come questo  acquista consistenza definitiva nella cristologia, pone la questione dell’origine di Gesù e della natura dell’uomo a partire dall’esperienza pasquale, e mostra così il valore della dimensione filiale del Cristo, una traccia che contraddistinguerà anche l’essere dell’uomo e la sua ricerca di felicità in modo persistente.[7]

Lo stesso decalogo (Es 20,1-17; Dt 5,6-21), patto di Alleanza tra Dio è l’uomo, contiene elementi che sono costitutivi dell’alleanza tra Dio e l’umanità dopo l’esperienza del diluvio purificatore (Gn 9,8-9) con riflessi specifici sull’humanum: l’uomo è l’interlocutore privilegiato di Dio,  e possiede una dignità straordinaria,  la cui radice è a livello della creazione (Gn 1,27) e si proietta verso la redenzione (Ef 1,5). La relazione tra Dio e l’uomo diventa in questo modo una relazione ontologica, superando definitivamente qualsiasi riduzionismo che vorrebbe relegarla solo all’ambito giuridico contrattuale.

Elementi che vengono evidenziati dall’incarnazione di Gesù messi in risalto dal Concilio di Calcedonia (451) da cui emerge la domanda che i Padri si sono posti: chi è veramente l’uomo? I Padri hanno così evitato i rischi del nestorianesimo e del monofisismo, entrambi svilenti per la consistenza antropologica;[8]la cui ricchezza  è invece dilatata dalla identità filiale.[9]

La Chiesa ha sempre cercato di trovare punti di appoggio alla sua proposta antropologica nell’identità divina del Risorto, e riflettendo sull’origine divina di Gesù, «vero uomo e vero Dio» su cui la resurrezione getta una luce rivelatrice, ha trovato il fondamento al proprio argomentare .[10]

La fede di San Paolo espressa nell’inno di provenienza liturgica inserito nella lettera ai Filippesi (Fil 2,6-11), è paradigmatica da questo punto di vista: la preesistenza del Cristo è li supposta: colui che era «in condizione di Dio» ha accettato di «divenire». Si stabilisce così una correlazione tra la glorificazione data al termine e l’esistenza del Cristo in Dio dal lato della sua origine. Cristo è «omega» poiché è «alfa», spiega Tremblay nella sua proposta antropologica: Sul piano della redenzione Cristo è immagine dell’uomo nuovo (omega), poiché in principio, sul piano della creazione (alfa), era in Dio, l’immagine del  primo uomo.[11]

Questa prospettiva si amplifica considerevolmente nelle Lettere ai Colossesi e agli Efesini mostrando come Cristo porta a compimento l’antica Sapienza, il progetto di Dio: la sapienza fondata «dal principio».[12]

Tremblay mostra come in San Giovanni e in San Paolo, nella splendida cristologia degli Inni di Efesini, Filippesi e Colossesi, Gesù riveli la propria identità , la sua origine filiale, risalendo al Padre «dove era prima». Siamo al culmine della cristologia e dell’antropologia neotestamentaria.

Per comprendere appieno l’identità di Gesù occorre dunque risalire al prima (Gv 6,62; 17,5).[13]

Di conseguenza l’uomo è epifania del Figlio per mezzo di una vita rivolta «verso l’alto», maturando un atteggiamento di desiderio di realizzazione del proprio fine, che consisterà in modo sempre più chiaro nell’adesione all’identità filiale.

Emerge così la prospettiva di un Padre che non è «concorrente», ma nella cui Paternità si riflette la traccia filiale dell’uomo: a livello della sua costituzione nativa, l’uomo scopre la legge naturale filiale, il logos,  che lo conduce a rinsaldare il legame fra Dio e l’uomo.[14]

L’uomo e Dio, in questo modo, rileva Tremblay, non si oppongono ma si intrecciano in una misteriosa pericoresi.

Tutta la creazione viene segnata dal misterioso progetto di Dio: dalla sua elevazione sulla Croce (Gv 3,14; 12,32) egli si è manifestato Padre all’origine di tutto, e, pensato nel suo essere figlio nel Figlio, l’uomo è richiamato alla propria verità.[15]

L’uomo nell’atto creatore di Dio è pensato come figlio (Ef 1,5) in cui si evidenzia la dimensione dell’immagine e il suo valore ontologico (Gn 1,27) e  attraverso la fede ed il battesimo accetterà di divenire «figlio adottivo» (Gal 4,4-7; Rm 8,14-17); una trasformazione interiore che gli permetterà di chiamare Dio con  il nome di Padre e di agire in modo conseguente. L’uomo filializzato, attraverso lo Spirito si saprà amato dal Padre, come il Figlio, sempre, in qualsiasi condizione dell’esistenza  e imparerà a divenire discepolo di Colui che è Via Verità e Vita (Gv 14,6) e mostra in cosa consista la vera umanità. L’agire dell’uomo non è più guidato da nessuna eteronomia ma diviene l’espressione di ciò che egli stesso «è». In definitiva, l’uomo filializzato impara ad agire in modo filiale rispondendo a quanto scopre nella propria identità attraverso l’ausilio della ragione filiale.

 

  1. «Agere sequitur esse»: il permanere del figlio nella complessità della storia

 

Il modello filiale evidenzia la possibilità di fondare l’agire morale nella persona stessa del Figlio di Dio e questo mette in risalto come Cristo non sia da considerare solo sotto l’aspetto dell’imitazione, ma soprattutto dal punto di vista dell’ontologia che attraverso lo Spirito viene portata a compimento. Nella morale filiale la dogmatica e l’antropologia teologica fondano il rapporto di sequela che è proprio del discepolo cristiano.[16]

L’appello di Dio a vivere come figlio è inscritto nell’identità stessa dell’uomo. L’antropologia stessa viene identificata come «predisposizione» a ricevere il dono della filiazione per grazia di Cristo. La vita morale del cristiano appare allora come una risposta alla vocazione filiale: essa diviene per questa via, vita filiale.[17]

Occorre chiarire come l’agire dipende dall’essere anzitutto evidenziando che l’agire dipende sempre dall’identità dell’attore[18].

Questo principio si ritrova anche nella Scrittura: E’ la chiamata di Dio che introduce il popolo in una relazione filiale (Es 4,22) esigendo da esso che agisca secondo le «dieci parole» per poter permanere nell’Alleanza così come nel Nuovo Testamento l’agire del figlio, libero e differente da quello dello schiavo è possibile solo se si rimane nella Verità del Figlio (Gv 8). Nella morale paolina essa è strettamente legata alla dogmatica e all’antropologia dell’uomo nuovo, figlio adottivo chiamato a vivere in accordo con il Figlio morto e risorto[19].

Anche il magistero della Chiesa offre diversi spunti per illustrare l’assioma agere filii sequiur esse filii,. Secondo il pensiero di Veritatis Splendor il cammino secondo lo Spirito è reso «possibile dalla grazia che ci dona di possedere la piena libertà dei figli (Rm 8,21) e quindi di rispondere nella vita morale alla sublime vocazione di essere “figli nel Figlio”» (VS 18). L’Enciclica mette in luce la vocazione dell’uomo che è chiamato a divenire figlio nel Figlio e legando indissolubilmente l’antropologia  morale all’antropologia filiale. (VS 45).

Anche il Catechismo della Chiesa Cattolica presenta il  medesimo schema: In apertura della della terza parte viene citato S.Leone Magno che invita il cristiano a una retta condotta in forza della dignità divina che ha ricevuto da Cristo nella Chiesa: l’antropologia cristiana fonda la vita nuova nello Spirito. L’uomo, immagine di Dio, diventa «figlio di Dio»  acquisendo la capacità a di seguire l’esempio di Cristo (CCC 1709)[20].

La vita morale cristiana offre un fondamento per pensare a una scelta che qualifica essenzialmente e impegna la libertà di fronte a Dio. L’obbedienza della fede (Rm16,26), attraverso la quale l’uomo si abbandona «tutto a Dio liberamente, prestando “il pieno ossequio dell’intelletto e della volontà”» (DV 5)[21]. L’appello alla radicalità che Cristo offre al giovane ricco (Mt 19,21) implica una scelta fondamentale che orienterà tutta la propria esistenza. Si può evidenziare così il senso dell’opzione fondamentale[22]🙁VS 66) essa  consiste nella chiamata di Gesù al discepolo a perdere la sua vita per il Cristo e per il Vangelo (Mc 8,35) oppure nella ricerca della perla preziosa (Mt 13, 4-46).

Il discepolo che riconosce il valore di tale opzione non potrà certo dimenticare che essa si attualizza in scelte particolari che orientano l’uomo in un crescendo sempre maggiore capace di mettere in atto una modalità realmente profetica, in un dinamismo sempre più crescente che gli permette di divenire «figlio nel Figlio» nella complessità dell’esistenza. Un dinamismo che orienterà il credente ad accettare la «gloria» del Padre e a rifiutare in modo netto ogni forma di autoglorificazione che lo allontana dalla vita libera (Gv 8)[23]. L’opzione fondamentale del figlio consiste nell’entrare nel dinamismo filiale fondamentale del dono, che «si caratterizza per un duplice abbandono di sé […]: l’abbandono di sé a vantaggio della gloria di Dio e l’abbandono di sé a vantaggio dei fratelli, di preferenza più indifesi».[24]

Come si può dunque intendere, la morale filiale, in base al principio dell’agere  sequitur esse, evita di far cadere l’antropologia morale in una atomizzazione normativa, ma è in grado di fondare il tutto nell’identità dell’uomo[25]mettendo la ragione in grado di riconoscenere un impianto normativo[26] che nulla a che vedere con l’eternomia, superando così le divergenze tra i sostenitori dell’autonomia (A.Auer) o della teonomia morale (B. Stöckle)[27].

 

 

  1. La profezia nel dolore: la vita eucaristica

 

L’eucarestia plasma la vita del credente[28]: scrive il Papa nella Deus caritas est[29]: «A questo atto di offerta Gesù ha dato una presenza duratura attraverso l’istituzione dell’Eucarestia, durante l’Ultima Cena. Egli anticipa la sua morte e resurrezione donando già in quell’ora ai suoi discepoli nel pane e nel vino se stesso, il suo corpo e il suo sangue come nuova manna (Gv 6,31-33). Se il mondo antico aveva sognato che, in fondo, vero cibo dell’uomo –ciò di cui egli come uomo vive- fosse il Logos, la sapienza eterna, adesso questo luogo è diventato per noi nutrimento- come amore. L’eucarestia ci attira nell’atto ablativo di Gesù. Noi non riceviamo soltanto in modo statico il Logos incarnato, ma veniamo coinvolti nella dinamica della sua donazione» (DCE 13)

Questa lunga citazione ci evidenzia il rapporto esistente tra la celebrazione e la vita: la liturgia diventa etica (H.U.von Balthasar) e in modo particolare il vertice di ogni celebrazione si propone di divenire il principio unificante dell’esistenza filiale. Esistenza che è marcata dalla ragione filiale che si radica nel logos del Figlio.

L’atteggiamento del credente nelle diverse situazioni esistenziali,non muta ma permane, in una sorta di misteriosa pericoresi, legato al modo di essere del Figlio e S.Agostino nel suo commento al prologo del vangelo di Giovanni rende noto un assioma formidabile: «Ubi humilitas, ibi caritas»[30]: al massimo abbassamento del Figlio corrisponde il massimo dell’amore percebile dall’uomo, da cui ne riamane attratto.[31]

Il percepirsi attratto da questa estetica amorosa mette l’uomo nella condizione di vivere un dinamismo di identificazione con la Sorgente, ma un dinamismo reso possibile dal dono dello Spirito che dal Risorto tocca il cuore di ogni uomo e che lo conduce alla perfezione. Secondo la Regola di S.Benedetto il monaco raggiunge la propria felicità quando raggiunge la perfezione della carità e questa è possibile  attraverso la via dell’umiltà.[32]

La vita del credente, se vuole raggiungere la pace del cuore, ascolta le sue inquietudini, e si rende conto che queste conducono al «luogo» dove vengono ascoltate e risolte; questo luogo non è più solo desiderabile poiché attraverso l’incarnazione ora è realmente a disposizione. Se il vertice del piano salvifico di Dio risiede nell’atto supremo del dono di sé sulla croce, in quel luogo il cristiano ritrova se stesso. E’ proprio nell’umiltà radicale di Cristo che il cristiano fonda se stesso: «Cristo ha preso l’ultimo posto nel mondo –la croce- e proprio con questa umiltà radicale ci ha redenti e costantemente ci aiuta» (DCE 35). Il cristiano partecipa alla donazione di Cristo e diventa esso stesso dono: l’umiltà della croce rivela la via della sua completa realizzazione: nel dono di Cristo, radicale ed eucaristico, il discepolo ritrovando la propria identità, scopre la sua esistenza come dono, offerta, eucaristia.

Il dinamismo d’amore del Figlio spinge il cristiano verso il superamento del limite imposto dall’egocentrismo e lo immette in una realtà dialogica verso la realtà e verso l’altro ad immagine e somiglianza di Colui che per eccellenza ha offerto se stesso, divenendo Via e Vita poiché Verità[33] (Gv 14,2-6).

Il frutto di questo dono è la libertà, ultimo tratto della vita eucaristica del Figlio. Se la verità dell’Uomo-Dio si identifica con l’atto di offerta di sé nella croce, di cui l’Eucarestia ne anticipa e attualizza l’amore del Padre nel Figlio attraverso lo Spirito, ci troviamo di fronte all’estetica della verità che è straordinariamente verità per l’uomo in ogni momento della sua esistenza. Ogni uomo ritroverà se stesso nel dono di se, costantemente in una vita rivolta verso l’alto, e tutto ciò sarà possibile poiché ogni uomo che ascolta i gemiti del suo cuore, sollecitati dalla traccia filiale, non potrà non individuare, come solo in Cristo in realtà, questa ricerca trovi compimento[34]

Ancora il Papa nella Caritas in veritate[35] non esita a definire l’identità dell’uomo come filiale e mette in videnza che dall’antropologia dipende il valore dell’etica ribadendo implicitamente l’assioma scolastico agere sequitur esse.

L’identità per l’uomo è definita dal Papa in relazione alle categorie della immagine e della somiglianza. Citando al numero 45 il testo di Genesi 1,27 il Pontefice mette in luce il valore della dignità dell’uomo, il quale sul piano creazionale è in rapporto con il Creatore, un rapporto legato alla sua ontologia che si specifica in una antropologia dal concetto forte che gli permette di evitare ogni tipo di riduzionismo  da cui occorre difendersi. Questa identità, ricorda il Papa, al numero 54 è pensata nella mente di Dio, come relazionale (Gn 2,24; Mt 19,5; Ef 5,31) capace di non isolarsi e pensarsi in comunione con gli altri «figli» nella casa del Padre.

Tutto questo innerva i contenuti della solidarietà che non sono solo legati all’assolvimento di doveri encomiabili, ma riguardano l’essere, il «logos» inscritto come legge nel cuore dell’uomo.

A ben vedere se l’identità è data dalla realtà sostanziale dell’uomo (ontologia) e questa ha una comune radice in Dio che è Padre Figlio e Spirito, essa potrà qualificarsi come identità filiale, che riconosce nel Figlio il modello in cui Il Padre ha da sempre pensato l’uomo che attraverso lo Spirito diviene propriamente se stesso abbandonando ogni deriva. «L’unità nella carità di Cristo ci chiama tutti a partecipare in qualità di figli alla vita del Dio vivente, Padre di tutti gli uomini» (19)

Se l’uomo si percepisce attraverso l’ascolto del suo cuore pensato nella mente di Dio,  egli sa che la «la carità è amore ricevuto e donato. Essa è grazia (charis). La sua scaturigine è l’amore sorgivo del Padre per il Figlio nello Spirito Santo. E’ amore eucaristico che dal Figlio discende su di noi. E’ amore creatore, per cui noi siamo; è amore redentore per cui  siamo ricreati» (5). Ecco la verità nel quale l’uomo ritrovando se stesso come pensato da sempre come figlio, ad immagine e somiglianza del Figlio, diviene, attraverso lo Spirito un dono relazionale e scopre nell’altro il valore dell’immagine e della somiglianza disponendolo ad una vita e ad una morte che si riassume nel dono di sé: cioè che diventa eucaristia.[36]

 

Dr. Don Roberto Valeri

 

[1]  R.Tremblay è un Redentorista. Professore ordinario di teologia morale presso l’Accademia Alfonsiana (Roma) e docente incaricato presso la Pontificia università lateranense. La sua vasta area di ricerca è consultabile sul sito www.realtremblay.org

[2]Tra i molti contributi dell’autore evidenziamo: R.Tremblay, Radicati e fondati nel Figlio, Roma 1997

[3] R.Tremblay, Cristo e la morale in alcuni documenti del Magistero, Roma 1996, 7-10

[4]  «Si tratta di un intervento solenne del pastore supremo della Chiesa, in comunione con il Collegio Episcopale, che dichiara una verità attinente alla “fede e ai costumi” come appartenente alla dottrina insegnata infallibilmente dalla Chiesa. Certo la Chiesa non vive solamente  di questo tipo di interventi . C’è in effetti in essa un patrimonio dottrinale che supera largamente gli interventi di questo genere. Ma ci sono anche dei momenti nella vita della Chiesa in cui i pastori , in virtù della responsabilità che spetta loro per volere del Kyrios, sentono l’opportunità di assicurare i fedeli che un elemento fino ad allora vissuto pacificamente, ma rimesso in causa dalle controversie del momento, sicuramente appartiene alla fede cattolica.» in Id, 188

[5]  «Il secondo punto da precisare è l’oggetto di tale intervento solenne del Magistero Ecclesiale. Nel caso, non si tratta di un dato che riguarda la “fede” ma i “costumi”. Non si tratta di un dato che riguarda il mondo della grazia propriamente detto come potrebbe essere un elemento che appartiene immediatamente all’inedito escatologico cristallizzato nel “Discorso della montagna” per esempio, ma di un dato che concerne l’uomo in quanto tale.» in Id, 188-189

[6] Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Veritatis splendor del 6 agosto 1993

[7]  «Dall’escatologia si passa allora alla preesistenza e da questa alla protologia, movimento che si cristallizza per esempio nella doppia affermazione giovannea “In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio” (Gv 1,1-2). E: “tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui niente è stato fatto” (Gv 1,3)» in Tremblay, Cristo e la morale, 189

[8]  Illuminanti a questo proposito le riflessioni che si trovano in: M.Hengel, Il Figlio di Dio. L’origine della cristologia e della  storia della regione giudeo-ellenistica, Brescia 1984, 140

[9]  «Abbandonandosi a questo dinamismo metafisico di apertura all’Altro, l’uomo diviene allora come l’espressione creazionale del Figlio, la sua manifestazione in abbozzo, sicuramente , ma non per questo meno reale.» in R.Tremblay, L’uomo epifania del Figlio , in Id, Radicati e fondati,52

[10] «Contrariamente alle apparenze forse, la questione e la sua risposta non era, agli occhi della Chiesa delle origini, un gioco da intellettuali da tavolino, ma uno sforzo del pensiero credente per rendere conto della pienezza dell’aspetto decisivo, definitivo della salvezza di Dio offerta in Gesù.» in R.Tremblay, Cristo e la morale, 191, nota 35

[11] «Inoltre alla coscienza escatologica della comunità primitiva, (…) corrisponde un certo interesse protologico. Solo chi dispone del principio possiede il tutto. Il principio doveva su questa base, venire illuminato dalla fine. L’idea della preesistenza era, alla fin fine, uno dei mezzi preferiti per evidenziare il peculiare valore salvifico di determinati fenomeni. (…). L’introduzione ricca di conseguenze, dall’idea di preesistenza nella cristologia scaturì così da una necessità interna. Eberhard Jüngel ha senza dubbio ragione quando da un punto di vista sistematico, esprime il seguente parere: “Si trattava di un fatto conseguente più che mitologico”. Con la preesistenza , comunque, prende forma piena anche l’enunciato riguardante l’invio. (…). Sulla base della preesistenza, così come avviene per la Sapienza in Ecclus 24, l’invio presuppone ora la discesa dalla sfera celeste, la riduzione alla dimensione umana e il farsi appuno uomo, come si dice nell’inno della lettera ai Filippesi.» in M.Hengel, Il figlio di Dio. L’origine della cristologia e della storia della religione giudeo-ellnistica, Brescia 1984  , 108-112

[12] «Una volta introdotto il concetto della preesistenza, era del tutto naturale che il Figlio di Dio innalzato assumesse anche la funzione propria della sapienza giudaica, di intermediario nell’opera di creazione e di salvezza. La stessa sapienza divina, preesistente ed associata in maniera singolare a Dio, non poteva essere riguardata come un’entità autonoma rispetto al Risorto ed Eletto, e come lui superiore , anzi tutte le funzioni della sapienza vennero attribuite a lui, poiché “in lui sono celati tutti i tesori della sapienza  e della conoscenza” (Col 2,3). Proprio così vennero espresse in modo conclusive l’insuperabilità e la definitività della rivelazione di Dio in Gesù. L’innalzato non è solamente il Preesistente, ma prende anche parte all’opus proprium Dei, alla creazione, anzi compie l’opera della creazione per incarico di Dio, viene investito da lui dei pieni poteri  e determina anche l’evento finale. Non vi è alcuna rivelazione, parola o azione di Dio che possa avere luogo senza di lui  o da lui possa prescindere» in Id, 113-114

[13] «A questa affermazione dell’origine divina (Gv 17,5) di Gesù, fa seguito la cristologia del prologo  dove, attraverso la “fusione” del Figlio di Dio preesistente con la “sapienza” della tradizione biblica , l’autore ci fa “risalire in Dio fino a questo compimento assoluto di colui che era, contemporaneamente presso Dio e Dio lui stesso”» in Tremblay, Cristo e la morale, 194

[14] «(…) nel figlio incarnato morto e risorto il Padre crea l’uomo nell’Amore aprendolo così ad un movimento di ritorno e di obbedienza filiale che è la pura negazione di ogni eteronomia» in Id, 196

[15] «Favorendo l’unione tra Dio e l’uomo per le ragioni già dette, non cado nel “monofisismo” dell’azione dove ciò che appartiene all’uomo, alla sua ragione alla sua libertà, sarebbe come inghiottito dal divinum. I cortocircuiti fatti nel passato in favore del divinum, che non sono senza relazione con l’avvenire dell’illuminismo con la sua rivendicazione dell’autonomia dell’uomo, e che non erano fedeli alla più pura tradizione cristiana (partendo da Calcedonia fino a San Tommaso per esempio), non possono in alcun modo ritrovarsi nella presente affermazione. La chiave dell’amore che fa appello alla relazione, alla persona (dono ricevuto/dono ridonato) e dunque che favorisce l’unione tra Dio e l’uomo nel rispetto delle loro differenze, ha come punto di riferimento e fonte ultimo, il paradigma trinitario delle “relazioni sussistenti” che costituiscono il Padre, il Figlio e lo Spirito. Questo paradigma, limitato ora alla persona del Figlio, si ripercuote al piano della cristologia dove la persona del Figlio è ciò che spiega la differenza inviolabile in lui delle nature divina e umana (nel Cristo l’unione si fa nelle due nature e non a partire dalle due nature) e da qui a ciò che dimostra che l’uomo gode per realizzarsi in quanto tale d’una propensione all’Ex-sistere. Così dunque sia che si parta dalla Trinità immanente (paradigma), che dalla Trinità economica o dalla cristologia, si arriva sempre alla stessa conclusione: più Dio si unisce all’uomo, più l’uomo è se stesso, più egli trova la sua autonomia.» in Id, 197, nota 51

[16] A.M. Jerumanis, L’agire morale filiale, in R.Tremblay (ed), Figli nel Figlio. Una teologia morale fondamentale, Bologna 2008, 185-200

[17] Tremblay, Radicati e fondati, 7

[18] J.De Finance, Conoscenza dell’essere. Trattato di ontologia. Roma 1993,380-385

[19] A.M. Jerumanis, La morale filiale dell’Antico Testamento, In Tremblay (ed), Figli nel Figlio, 27-43 e A.M. Jerumanis,  La morale filiale nel Nuovo Testamento in Tremblay (ed), Figli nel Figlio, 45-60

[20] «Il catechismo ci offre la possibilità di evidenziare il fondamento nell’essere filiale delle categorie morali di libertà, di coscienza, di virtù. Queste tre “disposizioni” sono in tal modo tutte ordinate a conformare le facoltà umane e l’agire che ne deriva a Cristo, allo scopo di creare, o di perfezionare, l’unione con lui, con il Padre e lo Spirito» in Jerumanis, L’agire morale filiale, 187

[21] Costituzione Conciliare Dei Verbum del 18 novembre 1965

[22] J.Maritain, La dialettica immanente del primo atto di libertà. Note di filosofia morale, in Id, Ragione e ragioni. Saggi sparsi, Milano 1982, 102-131

[23] «Gesù concepisce l’uomo come un essere libero capace di porre gesti ben precisi che lo impegnano o lo disimpegnano in profondità a riguardo della sua persona portatrice della vita eterna» in Tremblay, Cristo e la morale, 53

[24] R.Tremblay, L«innalzamento» del Figlio, fulcro della vita morale, Roma 2001, 70

[25] «In questo senso la vita morale possiede un  essenziale carattere “teleologico”, perché consiste nella deliberata ordinazione degli atti umani a Dio, sommo bene e fine (telos) ultimo dell’uomo» VS 73

[26] K.Wojtyla, Persona e atto, Milano 2000, 33

[27] S.Bastianel, Autonomia e teonomia, in F.Compagnoni, G.Piana, S.Privitera, Nuovo dizionario di Teologia morale, Cinisello Balsamo 1990,72-75

[28] R.Tremblay, L’eucaristia approfondimento e sviluppo della vita filiale, in Tremblay (ed), Figli nel Figlio, 345-363

[29] Benedetto XVI, Lettera enciclica, Deus caritas est, del 25 dicembre 2005

[30] In Io. Ep.tr., Prol. (Pl 3535, 1977-1978; SCh 75,107)

[31] Seguiremo quì le riflessioni dello studio di A.M. Jerumanis, «Deus caritas est»: ubi humilitas ibi caritas, in R.Tremblay (Ed), Deus caritas est. Per una teologia morale radicata in Cristo, Città del Vaticano 2007, 113-121

[32] «Una volta ascesi tutti questi gradi dell’umiltà, il monaco giungerà subito a quella carità, che quando è perfetta scaccia il timore» Regola di S.Benedetto VII,67

[33] R. Schnackemburg, Il vangelo di Giovanni, Brescia 1977, II, 357-375

[34] «Svilì d’un tratto ai miei occhi ogni vana speranza e mi fece bramare la sapienza immortale con incredibile ardore di cuore. Così cominciavo ad alzarmi per tornare a Te» Opere di S.Agostino,  Le confessioni, Roma 1982, III, 63

[35] Benedetto XVI, Lettera enciclica Caritas in veritate, del 29 giugno 2009

[36] «Il gesto supremo della vita di Cristo, l’Eucarestia, contiene per il cristiano il senso autentico del morire. (…). L’Eucarestia è l’atto decisivo di Gesù, quello nel quale egli anticipa la sua morte e la accoglie in obbedienza dalle mani del Padre e così la trasforma in un atto d’amore, nel suo donarsi per sempre per gli uomini, perché abbiano la vita. Partecipando all’Eucarestia e conformando in essa la sua libertà, il cristiano impara che il senso autentico della vita è il dono di sé  nell’amore e che “non c’è amore più grande di quello di chi da la propria vita per i suoi amici” Gv 15,13”. Così nell’Eucarestia e nell’amore vissuto egli anticipa la propria morte e si prepara alla morte come consenso alla volontà del Padre, nell’ora da lui voluta, e come dono di sé. Egli vive il vivere e il morire come appartenenza a Dio e come obbedienza al Padre» in L.Melina,Corso di bioetica. Il vangelo della Vita,Casale Monferrato 1996,  222

 

INCONTRI UCFI MILANO

Cari Amici dell’Ucfi di Milano, Lunedì sera 20 gennaio, alle ore 21,00 riprendono gli incontri dell’Ucfi.
I prossimi incontri verteranno sul tema attuale e complesso del Fine Vita.
Titolo del primo incontro sarà: ” Il morire filiale, identità e speranza. Affidamento e pienezza di libertà del Cristiano “ad limina” della vita”.
Relatore sarà il Prof Don Roberto Valeri.

Al termine dopo la discussione si deciderà insieme come procedere nelle successive serate.
È importante partecipare per essere preparati sia per le nostre personali decisioni sul fine vita, ma anche in vista di un possibile futuro coinvolgimento del farmacista nel fornire eventuali kit per porre fine alla vita, come già avviene in alcuni paesi europei .

L’incontro sarà in viale Piceno 18 alle ore 21,00.

IL CONSIGLIO DEL FARMACISTA PUÒ AIUTARE LA DONNA IN CASO DI SECCHEZZA E ATROFIA VULVARE?

La Fondazione Muralti organizza in collaborazione con la sezione di Milano dell’UCFI (Unione Cattolica Farmacisti Italiani) – della quale fanno parte diversi farmacisti associati – un incontro formativo di grande valore professionale ed etico.

 Martedì 19 novembre 2019
Dalle ore 21.00  Viale Piceno, 18 – 2° piano 

 Lo scopo della serata è mettere a fuoco la problematica della secchezza vulvo vaginale cercando di comprendere quali possano essere le varie cause che la generano: un deficit ormonale, una vaginite micotica, uno squilibrio emotivo. 

La comprensione della causa è ciò che ci potrà poi guidare nel giusto consiglio terapeutico: lubrificanti, idratanti, antisettici o altro.
A causa della ristrutturazione in corso i posti sono limitati, si prega di iscriversi mandando una e-mail a segreteria@fondazionemuralti.it o telefonando al 02.74811.262 

Cordialmente,
Manuela Bandi
Direttrice Fondazione Muralti 

Concorso Piccinno sulla solidarietà

Hanno partecipato al concorso Piccinno sulla solidarietà, che si è tenuto a Milano a Farmacista Più, lo scorso 4-5 ottobre 2019,  i Farmacisti UCFI:

  • il Dott Giuseppe Fattori con l’iniziativa della Farmacia e Poliambulatorio CARITAS di Roma nella quale esercitano come volontari i farmacisti ucfi da oltre 40 anni
  • il Dott Loris Rossi di Mantova con l’iniziativa in collaborazione tra UCFI e CARITAS di una associazione che fornisce farmaci ai bisognosi nella Provincia di Mantova da alcuni anni.
Entrambi hanno vinto il primo premio Piccinno ex-equo.
Si ringraziano tutti i farmacisti che hanno partecipato alla realizzazione di queste significative iniziative che aiutano nel concreto e si auspica il sorgere di altrettante iniziative in altre località in futuro.